La densità di luoghi, di volti, di contraddizioni, di storie che si incontrano lungo il percorso della Tirreno-Adriatico è tale da dilatare il tempo. Da renderlo antico, profondo. Che a scavare dietro ogni angolo di un vicolo stretto e un po' buio, dentro ogni negozio di alimentari dal pavimento sbiadito, ci vorrebbero giorni di chiacchiere e condivisioni, di racconti raccontati. Nei bar - quanti bar! Nei musei, nelle chiese, negli sguardi lenti affacciati alle finestre che danno sulle piazze ampie e vissute di quei borghi arroccati e arricciati che profumano ancora - e menomale - di pietra.
Oggi colorati a festa, di azzurro di blu.
Come i due mari, così lontani, così sognati.
Da un attimo di stupore, a uno di tristezza velata. Perfino di paura, sfiorando un mucchio di case sgretolate. E subito dopo di meraviglia, di fronte alle creste improvvise dei monti che tagliano le nuvole basse di un marzo che piove e traballa in bilico nel vento. Gole, vallate, piane ventose, e poi il cielo azzurro, e poi la neve abbagliante, e poi i boschi spogli, e poi sopra un fiume, e poi a zigzag tra le buche, e poi quel pezzo d'arte che sembra un viandante, e poi un uliveto e poi ancora e poi.
L'anima di un Paese intero si nutre e matura lontano da tutto, laddove ogni giorno faticano ad arrivare i tentacoli del consumo senza costi di spedizione. Dove il tempo riacquista il suo spazio e perfino una corsa di bici appare più lenta, più educata, più silenziosa.
È il Paese reale.
A Gualdo Tadino c'è il Museo dell'Emigrazione, storie di gente umbra partita in fuga in cerca di un traguardo. Poi c'è un murale dedicato ad Adolfo Leoni. Che era nato qui, ma poi scattò verso Rieti (il piazzale dello stadio di atletica di Rieti è intitolato proprio a lui). Poi c'è addirittura un amorometro, una specie di ruota della fortuna che giri e ti dice quanto ami qualcuno. Roba che "invia nome di lui spazio nome di lei" sembra fantascienza a confronto. A Gualdo Tadino c'è arte diffusa (ben 6 musei) e non poteva che vincere Bauhaus, ovvio. Nomen omen (lo disse Plauto, che era di Sarsina e quindi di sicuro avrà visto almeno una Tirreno-Adriatico in vita sua. Tutto torna).
Arrone appare in cima a uno sperone, lungo la Valnerina, dove corrono splendidi percorsi cicloturistici che fanno su e giù nel verde. Ad Arrone la mattina presto c'è la banda che si raduna per suonare in corteo prima della partenza. Giacche rosse, pantaloni neri e strumenti dorati. Assomigliano a Ganna, che in piazza è il più acclamato di tutti. Qui il Giro c'è passato più di una volta, proprio al centro del borgo. Che non facevi in tempo a giratte e a guardalli in TV che già stavano su a Montefranco. Ma una partenza mai. Ed è tutta un'altra storia. In via Roma braccia di tutte le età poggiate sulla ringhiera in cima alle scale, una signora esce un istante in balcone e forse si chiede che diavolo sia tutta questa confusione. Un cana abbaia, su ché c'è da fare la spesa.
Alla Tirreno-Adriatico i sogni sanno ancora essere solide realtà.
Le strade per raggiungere Ascoli Piceno e la zona sfumata al confine tra Marche e Abruzzo sono tortuose e incerte. Ma è bello così, non sarebbe la stessa cosa se per andare alla Tirreno-Adriatico tutto fosse facile e lineare. Da Valle Lempia, assopita in un dopopranzo grigio, inizia la salita di San Giacomo. Tanti tornanti che salgono ripidi e a gradoni nel bosco. È la tappa più solitaria, quella più distante dal rumore dei clacson e dalle insegne luminose. Quella dei campetti sperduti. Vingegaard la domina, ma con delicatezza. La divora, ma con pazienza. Sembra quasi risuoni una eco sotto quei rami che somigliano a mani protese verso il cielo. È una natura selvaggia e bellissima, coi pali obliqui dei cartelli stradali, magari - chissà - piegati dal vento. Con le discese che ti viene da frenare un sacco, ma anche da lasciarti cadere e libero andare a cercare il tuo mondo.
Le Marche sono un ottovolante, un balzo continuo da scendere, risalire e fare subito un altro giro di giostra. Sassoferrato si chiamava Sentinum e fu teatro di grandi battaglie romane. La storia è passata spesso da queste parti, anche in bicicletta. Tra il 1967 e il 1969 Giancarlo Polidori, cognome da pedalatore doc e nativo di qui, vestiva prima la Maglia Gialla al Tour e poi quella Rosa al Giro. Non male per un piccolo drappello da 7mila abitanti. Il meteo è incerto, c'è da chiedere a Pozzovivo se pioverà. Da qui a Cagli c'è di mezzo La Forchetta. Che per una volta non fa da posata, ma da Gran Premio della Montagna. Si affaccia sul Monastero di Fonte Avellana, consiglio di Ale e non solo. Ma non ho avuto tempo, ci vediamo alla prossima. Cagli attende la corsa all'andata e al ritorno, perché c'è un circuito finale prima di salire verso Monte Petrano. Al bivio sul ponte c'è il Bar Flaminia, Strada Statale numero 3 che ha visto tante ruote e tante ammiraglie in vita sua. Si parla di calcio e di bici. E di Monte Petrano, che è di nuovo bosco, è di nuovo salita. Fino ai tornanti, che si aprono a vista verso il Monte Nerone e la Gola del Furlo. E il vento, a quel punto, non trova ostacoli e spazza forte.
Contro noi tifosi affamati e incappucciati, contro i corridori stanchi ma sereni.
Consapevoli, tutti, che il passo lento è quello a cui si aggrappa questo mondo lanciato in discesa e rimasto senza freni.
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