Una giornata particolare sul Colle dell'Agnello |
Il confine tra realtà e immaginazione. L’istante in cui tutto diventa improvvisamente, e senza troppe ragioni, unico, irripetibile. Come tuffarsi dentro una bolla di sapone, senza farla scoppiare. Mi succede spesso alle corse di ciclismo, soprattutto al Giro d'Italia, quando cominciano a sentirsi le pale dell’elicottero, le sirene delle moto, la tensione del pubblico.
Ma quel giorno è stato diverso, tutto incredibilmente più grande e mozzafiato. Cinematografico.
Era la prima volta per me su quelle strade. Nomi impressi nella mia mente come ricordi d’infanzia, visti in tv, letti su un giornale, quasi sempre rosa. Il Col du Sampeyre, Pontechianale e quella tappa mozzata per troppa neve che vinse Pascal Richard, la Val Varaita, i cartelli stradali per la Francia e l'Izoard.
Alessandro e Angelo conoscevano già quei luoghi molto meglio di me per scorribande ciclistiche passate e mi raccontavano la bellezza e le peculiarità di quelle valli, profonde, autentiche e maestose. Il vivere isolati, molto più che in altre zone alpine. L’originalità dei profili delle case, ancora simili a baite di famiglia e poco azzannate dal turismo di massa. Io pensavo a falegnami e fabbri, panettieri e lavandaie, mentre - focaccia in mano - bevevo da una fontana di paese.
Il Colle dell’Agnello era al momento solo un nome su una mappa e un’idea vaga di storie passate scritte lassù. Chilometro dopo chilometro, passo dopo passo, il tutto è andato ben oltre la mia immaginazione limitata. I prati semiverdi, di una primavera tenuta ancora per mano e di un'estate non ancora matura. I primi gruppetti di tifosi saliti in bici e già piazzati nei punti dalla vista migliore. La distesa di camper parcheggiati a Pontechianale e visibili buttando l’occhio giù verso valle. La salita arcigna, le rocce sempre più numerose e la strada stretta ma solida.
E la neve. E che neve. Quella di maggio, quella che non t'aspetti, quella che ricordi. Dal parcheggio in su, fino alla cima, fino a un luogo magico. Il freddo intenso, il respiro sempre più affannato, due crackers in bocca ogni tanto come estremo appiglio per salire fino in cima. Le nuvole basse, sempre più basse, dannatamente sempre più basse, da non vedere quasi più niente. L'Inferno di Dante, ma poi pure il Paradiso, perché lassù le cose si mischiavano un bel po'.
Poi è arrivata la corsa a completare lo scenario. Le sagome dei ciclisti si confondevano, nella nebbia, coi muri di neve a bordo strada. Apparivano e svanivano in pochi secondi, così come quelle delle macchine al seguito. Gli applausi dei tifosi si impastavano nelle nuvole. La fatica era negli occhi di tutti, punto d'incontro sincero fra chi era in bici e chi no. Punto d'incontro fra realtà e immaginazione. Ognuno lassù per vincere il suo personalissimo Giro d'Italia, qualunque fosse il significato di quella vittoria.
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