mercoledì 8 settembre 2010

Ma prima di tutto torniamo su Laurent

Sapevo della malattia di Laurent Fignon eppure speravo in un suo recupero. Ne avevo ascoltato la voce durante l’ultimo Giro. Una voce terribile, che rifletteva tutta ciò che di disumano porta il cancro nel corpo di un uomo. Mia moglie mi aveva chiesto di chi era quella voce, ma non avevo avuto la forza di risponderle. Tanto nitide erano le immagini del Fignon ciclista indomito, magari sconfitto, eppure mai vinto, che non riuscivo e non volevo collegare quei suoni al grande ciclista. Quello delle due strabilianti Sanremo. Quello del codino. Quello dei due Tour e dei due Giri (chi ha da intendere intenda). Quello del Tour del ’89, che ha cambiato un epoca, e persino quello degli anni del declino. Fignon possedeva carisma. Era un vero capo riconosciuto, temuto e rispettato. Fignon ha chiuso la stagione del ciclismo degli eroi. Degli uomini che affrontavano tutte le corse più importanti senza troppi calcoli. Quel giorno del 1989, quando perse per soli otto secondi (secondi!) il Tour, non fu chiaro subito. Si spense l’era del ciclismo romantico e si balzò verso il ciclismo programmato. Quel giorno esultammo perché Fignon rappresentava la prepotenza, il dominio, la classe innata; mentre Lemond incarnava la semplicità, la determinazione, il gesto cocciuto di un inguaribile sognatore…. quanto ci sbagliavamo. Sull’asfalto di Parigi finì la storia di uno dei più grandi, uno dei più moderni e rivoluzionari. Il codino del Francese era il simbolo sfacciato della modernità e della rivoluzione, in un ciclismo fermo agli anni sessanta che veniva improvvisamente scosso da un ragazzo che, armato di occhialini e codino, suonava la sveglia. Addio Fignon.

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