sabato 1 ottobre 2011

Dieciedicitotto

Sono le dieci e diciotto minuti ed il sole fuori è ormai splendido.
La notte prima i pescherecci rombavano con quel suono sordo proveniente dalle anguste sale macchina, dove i Deutz sprigionavano tutta la loro potenza. Avevano appena imboccato la via del mare e ruggivano furiosi come fiere liberate dalle gabbie. Il mare era troppo grande per potersi orientare. A terra il faro silenzioso vegliava sul piccolo borgo e la strada era vuota.
Le quattro e mezza. L’aria è ancora estiva e non c’è alcuna voglia di parlare. Magari si può chiamare eccitazione, forse terrore. Ansia. Tutto ciò che ci circonda sembra guardare solo noi due: non solo le finestre delle case ma anche gli alberi, le auto posteggiate, le tegole dei tetti; ogni cosa ci spia. Nell’oscurità del primo mattino saliamo in auto, pieni di domande ed incertezze. Come ogni viaggio, anche questo fa un po’ paura.
Le cinque e mezza, e tu sei distesa sul letto. Tra i corridoi vuoti dell’ospedale sembra di vagare tra le aule di una scuola svuotata. Ogni cosa è silenziosa, ed un po’ cupa. Sembra che ci siamo solo noi mentre la signora delle pulizie occupa il centro della corsia. Ogni cosa pare estranea e sin troppo impegnativa. Non c’è tensione, siamo al sicuro, ma comprendo che il tuo viaggio è già a buon punto. Io ne sono soltanto spettatore e me ne sto nel mio angolo senza pensare a nulla che non sia la meta finale. Ma è ancora troppo presto.
Le ore viaggiano vuote e non hanno tempo. Tutto è legato a cicli più fisici che temporali. Le contrazioni si succedono una ad una e scandiscono lo trascorrere di quell’essenza che tutti gli uomini cercano di imprigionare in un orologio. Ma ora più che mai il tempo perde significato. C’è soltanto una sequenza di fatti ed emozioni che segnano il trascorrere di uno stato fluido, percettibile, ma impalpabile.
Le sei e mezza, e dalla finestra filtra il grigio chiaro del 28 settembre. Tu sei riversa su un fianco ed io di fianco a te ripenso al momento in cui un amico mi disse che avrei dovuto assistere a tutto il tuo travaglio, per poter dire di essere davvero stato d’aiuto. Ormai i dolori si alternano alla consapevolezza che nulla fermerà questo evento e non c’è più paura del viaggio. Il viaggio è ciò che stiamo vivendo e, casomai, c’è tanta ansia di raggiungere la meta. Ansia che ti prende stringendomi la mano. Ma il mio pensiero è assente. Latitante. Non ho mete, ne strade da percorrere, ti seguo semplicemente come fossi cieco.
Guardo la finestra ancora una volta e ti richiamo sul rosa splendido che illumina la stanza. E’ una giornata di meraviglioso sole che già si è acceso e si va infuocando sempre più velocemente. E’ un attimo meraviglioso la consapevolezza di adesso, d’aver visto quel rosa.
E’ l’ora, amore mio. E’ come un aereo che è partito a tutta velocità. Si decolla o si schianta. Si deve decollare. Adesso sento che la strada te la devo indicare io perché tu sei persa nel dolore e nella paura. La sala parto è fredda e scura. Mi guardo intorno e noto utensili e scatole medicinali, tubi ed apparecchiature. La sedia è al centro della stanza, io dietro la sedia, tu sulla sedia e l’ostetrica davanti ed attorno a noi il vuoto. Non c’è nient’altro adesso. Come se tutto il mondo fosse stato inghiottito. Come se tutto fosse rimasto in sospeso. C’è un orologio appeso sopra la porta che segna le dieci e cinque minuti, e mi chiedo se il sole la fuori avrà raggiunto il suo splendore. Ma è un attimo perché tutto precipita. Scorgo i capelli, poi il cranio, poi ti tengo la testa e tu urli, e spingi, ed urli, e gridi di non farcela più. Ed io sono li, a sorreggere il tuo capo, e rimango senza fiato a vedere che davvero dentro il ventre c’era un uomo, che ora esce, e viene appoggiato sul tuo petto. Il suo pianto rompe un silenzio di ghiaccio. Il suo pianto non è un pianto, ma un miracolo. I miei occhi si riempiono di lacrime che giungono da un luogo che non conosco, e si impadroniscono per un momento delle mie emozioni. Esco dalla stanza come uno che è stato preso a pugni per ore e quasi non capisco come faccio a camminare. Apro la porta ascoltando quel grido e la tua gioia. Non c’è più un significato da trovare e sono certo di aver vissuto.
Sono le dieci e diciotto minuti. Il sole adesso è splendido.


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